Pedalo veloce per la via principale di questo paese fin troppo piccolo. E pensare che quando ero bambina mi sembrava enorme, invece crescendo mi sono resa conto che è limitato, esattamente come la mentalità delle persone che lo popolano. La chiesa, un supermercato, il benzinaio, un panettiere che è anche un caffè, un pub e una tavola calda sono tutto quello che si può trovare oltre alle case sparse, distanti l’una dall’altra, circondate da alberi secolari e prati ingialliti dal sole. Le tapparelle sono abbassate per tenere fuori la calura estiva ma soprattutto gli ospiti indesiderati. Perché questo paese è così, chiuso a chiunque non rientri nei suoi standard, lontano da qualunque novità che le televisioni, tenute a volume basso durante i pomeriggi torridi come questo, propongono senza mai arrivare davvero alle orecchie di chi qui ci è nato e cresciuto. Tra pozzi di petrolio e allevamenti di bestiame, tutto è rimasto fermo e statico come una bicicletta appoggiata a un muro a bruciare sotto il sole. Questo è un piccolo passaggio, un paragrafo del romanzo “la giara delle imperfezioni” e racconta di come Daisy si senta soffocare in un paesino che le sta diventando stretto, che non si adatta ai cambiamenti, che non evolve mai da quello stato di quiete dove tutto procede senza troppi scossoni. È un po’ la sensazione che provo io tornando a casa nel piccolo paesino dove sono nata e cresciuta. Non tanto per il fatto che mi senta soffocare, è una piacevole sensazione la mia, ma per il fatto che niente sia cambiato. Sono andata via di casa a diciotto anni, ne ho ormai quaranta e pochissimo si è trasformato da quel giorno.
Quando rientri in quella comunità, però, ti rendi conto che qualcosa effettivamente è cambiato: il modo in cui ti trattano. Tu sei diventato “quello strano” quello che non fa più parte di un ambiente in cui tutti hanno qualcosa da condividere. Ascoltano le tue storie come qualcosa di cui meravigliarsi, ma poi tornano i “ti ricordi di quando…” perché è l’unica cosa che è rimasta in comune e di cui ci si ricorda con nostalgia. In quel momento ti rendi conto che sei tu quello che si deve adattare di nuovo a quelle regole, a quella comunità, a quel modo di vivere. Sei tu che vieni da fuori e portare la tua esperienza, il tuo modo di vivere, è visto un po’ con diffidenza. Ti senti ripetere frasi del tipo “sì, ok, ma qui non siamo a Londra/Stati Uniti/Canada, qui questa cosa non funziona, l’abbiamo sempre fatta così”.
L’effetto che si ottiene è quello di resistere a tutti i tipi di cambiamento, sia quelli imposti che quelli naturali, che avvengono per una maturazione dei tempi. Per alcuni ci vogliono anni, per altri addirittura un cambio generazionale, ed è questo che Scott impara: bisogna aiutare le menti giovani a portare il cambiamento. Nei piccoli paesini si tende a stare uno accanto all’altro, ad aiutarsi a vicenda anche contro ciò che viene percepito come una minaccia che viene dall’esterno. Non è necessariamente negativo, perché spesso si superano momenti difficili che altrimenti porterebbero a conseguenze più catastrofiche; bisogna essere consapevoli, però, che per vivere serenamente in quella comunità bisogna essere disposti a percepirne le sfumature e imparare a convivere con esse. Per poter cambiare le cose è fondamentale prima guadagnarsi la fiducia delle persone e, solo dopo, provare a spiegare un punto di vista molto diverso dal loro. Grazie per essere arrivato a leggere fin qui, significa che hai apprezzato l’articolo e questo mi fa molto piacere. Se vuoi saperne di più su quello che penso e quello che puoi trovare nei miei libri, iscriviti alla newsletter, per ricevere altre notizie. Niente spam, promesso.
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AutoreMoglie, zia orgogliosa, immigrata, autrice di 15+ romanzi, fervida sostenitrice del “be kind”, amante delle piante ma riesce a ucciderle in meno di una settimana. Seguimi su:Archivi
September 2024
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