Quando è uscito “vieni a prendermi”, primo libro della Stanford Series, ho ricevuto subito pareri molto contrastanti: chi lo ha amato, chi ha storto il naso per l’immaturità della protagonista e per il fatto che non sa cosa fare nella vita. Mentre sono d’accordo sull’immaturità, perché il personaggio è stato volutamente scritto in questo modo, evolvendo nel corso dei quattro libri, dall’altra parte non sono mai stata capace di capire fino in fondo il problema di non sapere cosa fare nella vita. Il libro è ambientato a Stanford, università californiana molto rinomata, la protagonista è di Seattle. Negli Stati Uniti i ragazzi si diplomano un anno prima che in Italia e, a differenza delle scuole italiane, il loro percorso di studi è generico. Non esistono licei scientifici, classici, ragioneria, magistrali, semplicemente frequenti la scuola superiore.
Quando sono andata alle medie, ero sempre brava in matematica. In musica e francese ero appena sufficiente (un disastro per me), ma mi piaceva tantissimo italiano e tutto quello che riguardava la sfera artistica, come il disegno. Quando è arrivato il momento di scegliere cosa fare alle superiori, è stata una tragedia. Il liceo artistico era troppo distante da casa e richiedeva delle giornate in cui rimanere anche il pomeriggio e avrei dovuto probabilmente trasferirmi in un collegio. Ho scartato l’idea, vista la lontananza. Gli istituti professionali non mi permettevano di avere una professione che mi piaceva, soprattutto perché non avevo idea, a tredici anni, di come fossero davvero quelle professioni, quindi le ho scartate. Rimanevano i licei, classico e scientifico. Con il liceo significava fare necessariamente l’università, con il liceo classico, però, cosa fai dopo? Lettere? E cosa vai a fare, aumentare la coda degli insegnanti precari per cui il posto fisso è un miraggio? Mica puoi pensare di fare lo scrittore, non ci campi a fare lo scrittore in Italia. Io non avevo idea, a tredici anni, di come potesse essere il mondo del lavoro perché a quell’età non avevo molta esperienza lavorativa, così mi sono affidata a ciò che gli adulti mi descrivevano, cercando di farmi un’idea e prendere una decisione. Così la scelta è ricaduta sul liceo scientifico, d’altra parte ero brava in matematica, no? La realtà è stata ben diversa, perché io davvero non avevo idea di cosa fare da grande. Perché chiedere a un ragazzino di tredici anni di scegliere la scuola in base alla professione che vuole fare è a dir poco illogico. La maggior parte dei ragazzini a quell’età non ha la più pallida idea di quale sia il loro futuro, ed è giusto così. Quella è l’età in cui dovresti scoprire di più su te stesso, non essere costretto a fare scelte che, se realizzi essere sbagliate in futuro, sarà difficile cambiare rotta.
È per questo che mi trovo spaesata quando mi dicono che a diciott’anni devi iniziare a sceglierti una carriera, perché in realtà a diciott’anni devi ancora capire chi sei veramente e quali siano davvero le tue potenzialità e capacità. Io stimo le persone che decidono fin da giovani cosa vogliono nella vita e lo inseguono fin dalla giovane età, riuscendo a raggiungerlo presto. Sono però anche convinta che, tanti si rendano conto che in realtà quella non è la professione che vogliono fare per il resto della vita, si sentono intrappolati, ma è troppo difficile, dispendioso, o semplicemente fa troppa paura cambiare.
È per questo motivo che mi piace scrivere di personaggi indecisi, che non sanno cosa vogliono, che non hanno idea di cosa fare del loro futuro, perché voglio che abbiano la possibilità di sbagliare, imparare, crescere e diventare adulti consapevoli. Se ti sono piaciuti i contenuti di questo articolo e vuoi ricevere aggiornamenti sui miei libri, iscriviti alla mia newsletter. Manderò settimanalmente degli aggiornamenti, niente spam, promesso.
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AutoreMoglie, zia orgogliosa, immigrata, autrice di 15+ romanzi, fervida sostenitrice del “be kind”, amante delle piante ma riesce a ucciderle in meno di una settimana. Seguimi su:Archivi
September 2024
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